La maggior parte di noi è solita leggere almeno 4/4 degli ingredienti infiammabili riportati a mano sulle confezioni dei prodotti potenzialmente chimici; li guardiamo con occhi indiscreti, soprattutto se siamo allergici ad esempio al mais, oppure se stiamo rispettando il regime dietetico di qualche amico, incontrato per puro caso o per impura curiosità nella bottega vicino a casa. O anche in quella un po' più distante, a volte in un'altra città, a volte dal dottore, a volte all'edicola o in libreria, in biblioteca, a scuola, dal parrucchiere oppure, dipende dal tempo, dall'orologiaio.
Sono ad oggi ben poche invece le persone che prima di ascoltare volentieri una canzone che parla di petrolio, farsi uno shampoo all'olio, sciogliere una crema a bagnomaria o incendiare una sedia, prestano attenzione a quel dannato elenco che ogni volta ci fa pentire di essere usciti la sera prima. Elenco talvolta lunghissimo, talvolta cortissimo, scritto a computer (e in lingua sportiva) riportato in basso a destra, in fondo dopo le scale, sul retro del negozio nel quale abbiamo acquistato quel prodotto che nemmeno ci servirà mai dire mai.
Riflessioni complesse ed estensioni dettagliate ci portano a ragionare su alcuni degli ingredienti tanto diffusi nei contenitori plastici a batterie.
Petroilpietro, Paraolimpic Liquidus o Walter Oilnonoil sono i terrificanti nomi riportati sugli spray per viscere, ad esempio, oppure sulla carta da strappo o ancora sulle creme da sbronza del venerdì sera, per definire un ingrediente che sembra derivare dal petrolio, così a prima lettura da sinistra a destra, ma che in realtà da secoli è prodotto dallo stesso uomo che maneggia le scatole nella catena di montaggio, attraverso ingranaggi da imballo su nastri rotatori perpetui. La colpa è quindi di uno solo, non di tutti, nonostante gli ingredienti siano tutti derivati da quell'uomo. La Federazione Ingredienti ha già preso in carico sul furgone dell'azienda tutta la faccenda, solo che io non ho tempo adesso e vado a fare merenda.